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domenica 15 maggio 2016

#appuntisemiseridipaleontologia7

Un interessante approfondimento sulle faune fossili di Bolca, riportiamo abstract dell'articolo: 
Scavi Controllati nei siti della Pesciara e Monte Postale forniscono  nuovi elementi sulla paleocologia e tafonomia deella associazioni ittiche del Konservat-Lagerstätte di Bolca, Eocene Italy
Autori: Marramà, Bannikov, Tyler, Zorzin, Carnevale

Il Konservat-Lagerstätte di Bolca, (VR), è famoso per l'abbondanza e l'ottima conservazione dei suoi fossili eocenici. Anche se i siti di Bolca hanno fornito una delle associazioni fossili ichthyofaunistiche più studiate del mondo, alcuni aspetti circa la struttura della comunità e dei processi biostratinomici che hanno portato all'accumulo di suoi resti di pesce sono stati trascurati o sottovalutati. Al fine di migliorare la nostra conoscenza relativa alla paleoecologia e paleoambiente di Bolca, un'analisi quantitativa paleoecologico e tafonomica dei pesci raccolti durante gli scavi controllati presso i siti Pesciara e Monte Postale è presentata qui. I risultati di queste analisi consentono di suggerire che questi due siti abbiano diversi specie fossili  e diversi contesti deposizionali. La conservazione di alta qualità dei pesci dal sito Pesciara ha permesso l'identificazione a livello di specie di molti dei suoi campioni, fornendo una buona risoluzione del suo spettro paleoecologico. La fauna ittica della Pesciara è definits da una precisa struttura oligarchica chiaramente dominata da taxa planctivori. Le caratteristiche tafonomici confermano che i sedimenti sono stati depositati in un bacino intraplatform in cui condizioni anossiche in fondo e lo sviluppo del biofilm agivano come promotori di conservazione fossili di alta qualità. D'altra parte, la qualità di conservazione moderata dei pesci di Monte Postale non consente per la maggior parte dei campioni l'identificazione a livello genere o specie, rendendo difficile interpretare i rapporti ecologici e trofici all'interno di questa associazione. Tuttavia, l'abbondanza di piante marine e terrestri, accoppiato con il gran numero di invertebrati (tra cui coralli abbondanti), concorrono a suggerire che i sedimenti di Monte Postale si fossero probabilmente depositati in prossimità di una zona costiera emersa caratterizzata da mangrovie, alghe, e le barriere coralline . La disgregazione importante di scheletri di pesce, insieme con la dispersione unimodale degli elementi e bioturbations, indicano chiaramente un alto grado di disturbo nella paleoambiente Monte Postale, suggerendo almeno condizioni aerobiche periodiche del fondale.

lunedì 9 maggio 2016

La notte dell' #Orcolat


40 fa avveniva il terremoto del Friuli, un terremoto che ha cambiato molte cose. Nello studio della sismologia, nella gestione delle emergenze, nelle costruzioni edili, nella comunicazione delle catastrofi. Inoltre è stato un esempio per tutti, la compostezza dei friulani, che si sono rimboccati le maniche e hanno ricostruito. Per non dimenticare. Qui un approfondimento INGV sul tema.

venerdì 25 marzo 2016

#DissestoItalia - dossier 2015

Presentato il Dossier ISPRA sul Dissesto Idrogeologico in Italia, aggiornato al 2015. emerge ancora come l'Italia sia tra i paese Europei con maggiore rischio di dissesto idrogeologico, sia per rischio  frane (7,9% superficie coinvolta - solo lo 0,6% in Veneto) che per rischio idraulico (8,1% superficie a rischio su base nazionale e ben il 9,6% inambito Veneto). Tra l'altro il Veneto è nel gruppo di regioni che relativamente al rischio alluvioni vanta il maggior numero di attività produttive e beni culturali in zona di forte rischio, ciò fornisce un ulteriore spunto di riflessione quando si discute in termini di "costi" del dissesto, e sulla necessità di interventi capillari nel territorio.
Se andiamo poi a combinare il rischio di frana con il rischio idraulico rileviamo circa il 10,1% della superficie regionale è a rischio, ma che i comuni toccati sono ben 374 (su 581), ciò indica come il rischio sia diffuso, anche a causa dell'intensa pressione antropica presente nella nostra regione. Su base nazionale il 15,8% della superficie è a rischo dissesto con 7.145 couni interessati (su 8.092). Ben presente anche il rischio erosione costiera. Tra il 2000 e il 2007 il 37% dei litorali italiani ha subito riduzioni di oltre 5m. E i tratti di costa in erosione sono maggiori di quelli progradrazione (in "crescita"). In ambito veneto tale dato sale al  39,2%, con 25,3% della costa a ulteriore rischio erosione.
Insomma il quadro che ne emerge è decisamente preoccupante, sopratutto perché non appare evidente che chi pianifica lo sviluppo del territorio ne abbia consapevolezza. E non sembra ancora mautrata appieno una consapevolezza sociale sul tema. Discutendo di sicurezza degli argini, con alcuni esperti olandesi, siamo rimasti colpiti di come il tema sicurezza e gestione di questo tipo di tematiche sia particolarmente sentito dall'intera società, tanto che gli organi d'informazione molto spesso danno notizie circa gli interventi o le scelte che riguardano questi temi. Da noi risulta chiara che se ne parla solo in occasione di eventi calamitosi, al massimo in articoli di cronoca locale. Manca ancora una chira coscienza civile del territorio.

venerdì 18 marzo 2016

Collegato Ambientale, Dissesto Idrogeologico e Difesa del suolo, oltre le buone intenzioni

Il 18 gennaio 2016 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale la Legge n.221 del 28 dicembre 2015, il cosiddetto "collegato ambientale", Ma collegato a cosa? Alla Legge di Stabilità (la vecchia Finanziaria), del 2014. Come hanno osservato molti commentatori molto più autorevoli di noi, la legge introduce importanti elementi di novità, ma con una certa disorganicità, intervenendo su vari campi, dai rifiuti alla green economy, dal dissesto idrogeologico alla tutela delle acque, apparentemente senza  un chiaro disegno strutturato e sopratutto rimettendo mano al TU Ambiente, il D. Lgs 152/06, testo che ormai, ogni anno riceve più di un significativo adeguamento. L'instabilità del quadro normativo non è certo utile per di difesa del territorio che vogliano avere una prospettiva di medio respiro almeno. Andiamo a vedere cosa si dice in merito al dissesto idrogeologico e alla difesa del suolo e delle acque:
  • si istituiscono, finalmente, allinenandoci al quadro europeo, in particolare alla direttiva Alluvioni, le Autorità di Bacino Distrettuale, che vanno a sostituire le esistenti Autorità di Bacino,  detti organi avranno numerose competenze per la mitigazione del rischio alluvioni, la difesa del suolo e la riduzione del dissesto idrogeologico, sia in termini di pianificazione che di intervento, con un autorità anche sovra regionale, riuscendo così, si spera, a elaborare interventi che tengano conto delle dinamiche territoriali su scala più ampia, consentendo vere riduzioni di rischio e non semplicemente spostamenti da un territorio all'altro.
  • viene istituito un fondo per incentivare la demolizione delle costruzioni abusive in zone a riconsciuto rischio idrogeologico. 
  • viene istituito anche un fondo per la progettazione d'interventi atti a prevenire il dissesto idrogeologico.
  • viene eliminato il "silenzio assenso" relativamente alle pratiche edilizie per manufatti in zona con vincolo di tutela per rischio idrogeologico.
  • viene introdotto nel TU Ambiente la nozione di "contratto di fiume", ossia di quegli accordi di programma per la tutela dei bacini fluviali, sono strumenti su base volontaria di partecipazione, che coinvolgono enti, cittadini e portatori d'interesse nella gestione dei corsi d'acqua con finalità di recupero, valorizzazione , protezione dell'ambiente, uso sostenibile delle acque e mitigazione del rischio alluvioni.
Complessivamente si introducono elmenti utili nelle attività di recupero del territorio e si danno chiare volontà di voler destinare risorse reali per la riduzione del dissesto idrogeologico, resta da capire se ciò sia un "una tantum" o indichi una precisa svolta nelle politiche di gestione del territorio. Resta evidente però, che un intervento normativo strutturato, che renda più chiari gli indirizzi, più efficaci gli strumenti e sopratutto meno farraginosa e elefantiaca la norma stessa è assai lungi da venire.

mercoledì 2 marzo 2016

Allarme Geologi



                                          Comunicato Stampa
Fagioli : “In 4 anni il numero dei docenti in Geologia è crollato del 15%”.

Fragale : “A 50 anni dalla legge istitutiva la politica italiana non ha ancora compreso il valore sociale e le reali potenzialità del geologo.  A Napoli stileremo un documento finale con proposte mirate al riconoscimento del ruolo cardine del geologo nella tutela degli interessi dei cittadini e dello Stato”.

 La geologia accademica italiana è a serio rischio di estinzione: di 29 Dipartimenti ne sono rimasti solo 8,  il numero dei docenti che devono formare le nuove leve negli ultimi 4 anni si è ridotto almeno del 15%.  La riforma “Gelmini” con la sua filosofia mercatistica di ”risparmio degli sprechi e miglioramento” basati solo sulla quantità, ha pesantemente colpito aree numericamente di nicchia, quale la geologia, in totale spregio dei suoi insostituibili ruoli per l’interesse per la collettività. Lo ha affermato il Presidente dell’Ordine dei Geologi della Toscana , Maria Teresa Fagioli . L’evento di Napoli , il Congresso Nazionale di tutti i geologi italiani , dovrà rappresentare una svolta politica epocale per l’Italia e per l’intera categoria dei geologi .  Un Congresso voluto dal Consiglio Nazionale dei Geologi e dagli Ordini regionali per imboccare il percorso decisivo.
A tutt’oggi il Decreto definito “salva geologia” che doveva rimediare a questa tortura – ha denunciato Fagioli -  è fermo in Parlamento: l’argomento non sembra interessare.
Negli ultimi anni,  con l’evoluzione del clima caratterizzata dal riscaldamento globale e da piogge concentrate fino a due decenni fa ritenute eccezionali, abbiamo assistito ad una crescita esponenziale di dissesti e disastri che hanno coinvolto e coinvolgono pesantemente pressoché l’intero territorio nazionale; tutti, almeno a parole, sono d’accordo nel sostenere che servono geologi e  per il geologo sono, o è meglio dire dovrebbero essere, cresciute le occasioni di lavoro.
Al contrario, con atteggiamento che potremmo definire schizofrenico, la macchina politico burocratica che gestisce la cosa pubblica, i geologi sembra sistematicamente snobbarli o sottoutilizzarli, siano essi liberi professionisti o dipendenti della cosa pubblica stessa.
A ciò si aggiunge la marginalizzazione degli insegnamenti delle scienze geologiche nelle scuole secondarie di secondo grado, dove le nozioni di base di Scienze della Terra sono state ridotte a poche “pillole” limitate nei soli primi due anni e disperse tra concetti di biologia e chimica all’interno del solo ambito formativo delle “Scienze”. Una simile decimazione culturale, se non si interviene, produrrà la rapida contrazione delle opportunità di lavoro per il geologo, soprattutto in ambito libero professionale.
Il problema di fondo è che la maggioranza dei nostri politici e pubblici amministratori semplicemente ignora ruolo, compiti e potenzialità della professionalità dei geologi, e le generazioni oggi in età scolare rischiano di saperne sempre meno.

“La legge istitutiva della professione del geologo risale a ben 50 anni fa e da allora la politica non ha ancora compreso il valore sociale e le reali potenzialità  di tale figura . Gli obiettivi del Congresso di Napoli  - ha concluso Francesco Fragale , Presidente dell’Ordine dei Geologi della Calabria -  saranno anche quelli di consolidare e strutturare gli attuali ambiti occupazionali della professione, evidenziare la possibilità di coprire nuovi settori lavorativi, individuare strategie per indirizzare la professione verso le richieste del mercato formulando proposte normative da sottoporre all’attenzione della politica. Stileremo un documento finale contenente proposte mirate al riconoscimento del ruolo cardine del geologo nella tutela degli interessi generali dei cittadini e dello Stato, fondamentale per la crescita economica del Paese, attraverso anche l’avvio di efficaci attività collaborative con le istituzioni”. Il 28 , 29 , 30 Aprile centinaia di geologi a Napoli per il Congresso Nazionale .


domenica 28 febbraio 2016

#AppuntisemiseridiPaleontologia 6: Elegantemente crinoidi

Presentiamo i Crinoidi, gruppo di organismi marini, tuttora esistente, che vede la luce nell’Ordoviciano (i milioni di anni non ve le dico più, andate a vedervi la tavola del tempo geologico, presentata illo tempore). Intanto, i Crinoidi nella classificazione tassonomica fanno parte del gruppo di invertebrati del tipo Echinodermata, sono primi cugini dei ricci di mare, sottotipo Pelmatozoa che raggruppa le forme prevalentemente fisse (ciò non mobili), la Classe Crinoidea, si divide in 4 sottoclassi, Camerata, Inadunata, Flexbilia eArticulata, le prime tre compaiono nell’Ordoviciano, hanno un’amplissima diffusione, ma ad inizio Mesozoico, nel Triassico, spariscono bruscamente, vittime di una delle grandi estinzioni di massa della storia terrestre, quella avvenuta a fine Permiano appunto, che segna anche la fine del Paleozoico, in questa estinzione ci lasciano le penne soprattutto le forme fisse, quelle peduncolate. Gli Articulata compaiono proprio in questo momento, si diffondono nel Mesozoico e sono tuttora presenti, dal mesozoico in poi le forme libere, cioè non fissate al substrato con peduncolo, divengono prevalenti. Ma vediamo di capire cosa sono questi Crinoidi (nella foto Arthroacantha carpenteri, Devoniano,  fonte Paleoportal). Sono organismi marini, dotati di un stelo, che può avere un sezione da circolare a stellata, un apparato radicale per fissarsi al substrato (nelle forme fisse, non c’è nelle forme mobili, non vincolate al fondo), che può essere fatto come delle radici vere o proprie, o come un’ancora o un chiodo, vi è poi sopra questo la corona, dove troviamo la teca, che ospita, di fatto, buona parte del “corpo” dell’organismo, ossia l’apparato boccale e anale (talora i due orifizi sono pericolosamente vicini) e le braccia che spesso hanno numerose diramazioni, alla base di queste c’è il tegmen, ossia l’area ventrale dell’organismo dove, appunto, risiedono la bocca e l’ano. Va detto che i crinoidi sono completamente ricoperti da piastrine calcare, la cui disposizione (forma, mosaico, numero di giri) è assai importante nell’identificazione specifica. Ornamentazioni particolari, possono essere spine sullo stello, o i cirri, diramazioni dello stello piumiformi o le pinnule, diramazioni piumiformi delle braccia. Questi organismi sono sessili e si nutrono del materiale organico in sospensione nelle acque. Sono piuttosto delicati nella scelta delle temperature e della salinità, per cui sono anche buoni indicatori nelle ricostruzioni paleoambientali, hanno colonizzato habitat sino a 6mila mt di profondità. Non vi tedierò, non sono così sadico, sulla classificazione stretta, basata sui giri di placchette calcaree della teca, cosa che all’università mi appassionava, però, val la pena dire che le placche costituenti l’esoscheletro di questi organismi, a testimonianza dell’abbondanza che questi dovevano avere, sono elementi assai abbondanti in vari membri (è un termine tecnico non fate doppi sensi infantili) rocciosi di formazioni carbonatiche, tanto che alcune vengono appunto definite Encriniti, per la massiccia presenza di resti di crinoidi. Mi par di ricordare tra le tante l’encrinite di Fanes. Alla prossima.

domenica 14 febbraio 2016

#AppuntisemiseridiPaleontologia 5: Aptici e rimembranze

Durante alcuni bagordi nel mesozioco feltrino, nelle fumose notti di sbornia mi è venuta l'ispirazione per il nuovo ospite fossile. Su sulle Vette Feltrine al rifugio Dal Piaz, ho potuto rivedere dei vecchi amici, la collezione mineralogica-petrografica-paleontologica dei campioni raccolti in quelle zone dal mitico professor Braga. Tra questi c’era un bel camione di calcari ad Aptici. E cosa sono gli Aptici (nella foto sotto – fonte internet)?  Ottima domanda. Anche se ancor oggi una risposta univoca ancora non c’è. Ma andiamo con ordine. Gli Aptici sono placche calcare o cornee, convesse, di forma subtriangolare, talora si rinvengono singole, talora doppie con saldatura centra, spesso sono stati ritrovati associati a gusci di ammoniti (cefalopodi con guscio spiralato, du you remember?), ma il più delle volte si ritrovano da soli nel sedimento. Costituiti di materiale calcitico, organizzato in una struttura piuttosto complessa, si classificano a seconda delle ornamentazioni e della forma, oltre che a seconda se trovati singoli (se ovale o subtriangolare) – Anaptychus,  doppi, ma simmetricamente associati Aptychus, doppi e saldati –Synaptychus.  A cosa servivano gli Aptici… ecco il problema non è chiara la loro funzione, poiché le volte in cui si sono trovati gusci di ammoniti associati a questi (solitamente si trovano nella camera finale, dove spuntava l’animale) hanno dato luogo a interpretazioni contrastanti. Sostanzialmente 2 sono oggi sul campo: la prima li vuole degli “opercoli”, ossia porte di chiusura del guscio, ovverosia le ammoniti potevano ritrarsi nel guscio e letteralmente “chiudere la porta in faccia” a eventuali predatori, insomma una specie di boccaporto, oppure servivano a masticare, tipo il becco degli odierni polpi e seppie. Ammetto che propendo per la seconda ipotesi, ovverosia che fossero la “dentiera” delle ammoniti. I campioni che ho visto su al rifugio Dal Piaz (1999m s.l.m.m.), provengono dalla formazione di Fonzaso, formazione rocciosa che prende il nome dall’amena località bellunese, databile al Giurassico superiore, circa 150mln anni fa, che sulle Vette Feltrine arriva ad avere uno spessore di 100m, si trova tra la formazione del Rosso Ammonitico Inferiore e il Rosso Ammonitico Superiore (quest’ultima è quel “marmo” rosso a noduli, assai tipico in molti pavimenti o pianali), è una formazione prevalentemente calcarea (roccia di Ca CO3) color grigio, con vario contenuto fossilifero (fossili marini, soprattutto invertebrati) e sono presenti spesso, soprattutto nella parte bassa della formazione, liste di selce (la pietra dei primitivi..) marrone, mentre nella parte superiore vi sono elementi più marnosi, tra cui appunto gli “”Scisti ad Aptici” livelli laminati ricchi dei fossili testé descritti.  Alla prossima.

sabato 30 gennaio 2016

#AppuntisemiseridiPaleontologia 4: Orthoceras, cefalopodi e e paleocorrenti

Nei mari del passato i brutti incontri erano all'ordine del giornio. Andiamo a conoscere alcune delle brutte compagnie che giravano per i mari del Paleozoico, siamo precisamente nell’Ordoviciano (500-435 mln di anni fa), l’atmosfera fuori dall’acqua sta diventando via via più respirabile, grazie all’ossigeno liberato in aria dalle alghe fotosintetiche e successivamente alla vegetazione terrestre, le terre emerse sono meno inospitali, ma ciononostante la vita si svolge ancora per lo più nei mari. È ormai iniziata la corsa evolutiva agli armamenti, con la comparsa di prede e predatori sempre più elaborati.  Nell’Ordoviciano c’è un gruppo in particolare a farla da padrone, sono gli Ortoconidi o Orthoceras, cefalopodi (lo stesso gruppo di seppie e polpi) muniti di conchiglia (cugini degli attuali nautiloidi, quei cefalopodi con guscio  a “chiocciola” che ogni tanto fanno capolino in qualche documentario), che sono stati un gruppo assai importante nell’Ordoviciano e nel Siluriano (anch’essi buoni fossili guida) e poi hanno conosciuto un lento declino, sino a estinguersi nel Triassico, poiché soppiantati da altri gruppi animali. Gli ortoconidi raggiungono dimensioni notevoli (dell’ordine dei metri) ed erano sicuramente un brutto incontro da fare… specie se eravate un trilobite… i cefalopodi in generale sono molluschi assi complessi, con un sistema nervoso molto sviluppato, e occhi molto elaborati, segno che la vista era un organo importante e che i mari ormai si erano popolati di colore. Le conchiglie degli ortoceratidi erano fatte di calcite (CaCO3), con la tipica forma ortoconica, ossia a cono gelato, al cui interno vi erano vari setti che dividevano le camere che ospitavano il corpo del cefalopode, camere che s’ingrandivano al crescere dell’organismo. Un camera era separata dalle altre dalle linee di sutura, tipiche per ogni specie. Gli ortoceratidi erano carnivori predatori. Negli studi tafonomici (ossia lo studio dei processi che vanno dalla morte dell’organismo alla sua fossilizzazione, ossia dal trasferimento di materia dalla biosfera alla litosfera) i gusci di ortoceratidi possono fornire indicazioni piuttosto interessanti, infatti, se non si frantumano essi tendono a orientarsi secondo la corrente dominante (una volta decompostesi le parti molli), se ve n’è una,  permettendo così ai paleontologi di poter ricostruire le paleocorrenti, ossia le correnti dominanti nei mari in cui quegli organismi vivevano, consentendo così importanti ricostruzioni paleoambientali.
Nella foto (fonte internet) potete appunto vedere gusci di ortoceratidi isoorientati.

domenica 10 gennaio 2016

#AppuntisemiseridiPaleontologia 3: Trilobiti of course

In una rassegna su gruppi importanti di organismi fossili, non si può non parlare di  Trilobiti (nel disegno un Trilobite del genere Olenus in una ricostruzione, fonte internet), gruppo che mi consente anche d’introdurre due importanti concetti paleontologici, quello del fossile guida (che non è un fossile per ciechi) e quello di evoluzione per equilibri intermittenti (che non si riferisce alla mia stabilità mentale), di cui vi dirò a breve. I trilobiti sono un gruppo di artropodi (di cui fan parte Crostacei, Insetti, Ragni… tanto per capirci) abbondantemente distribuito in tutto il Paleozoico, con un numero molto importante di generi e specie. Di dimensioni variabili dai 3 ai 15 cm, con guscio formato da uno strato mineralizzato e uno chitinoso (assai simile a quelli degli attuali crostacei)  questi artropodi sono così detti per la forma del loro capo ripartito in tre parti (la parte centrale è detta glabella, le due lateraligena), nel corso della loro presenza sulla Terra si sono diversificate in molte forme, talune assai  bizzarre (presenza di spine laterali, occhi enormi…) questo perché i trilobiti si diffusero in vari habitat: furono bentonici (passeggiavano per i fondali) o nectobentonici (ogni tanto si facevano una nuotata). Alla fine del Cambriano, una profonda crisi segna il gruppo, forse associata alla comparsa dei cefalopodi predatori, cui segue una nuova diffusione di nuove forme, fino al  termine del Permiano (ca. 250mln anni fa), quando i Trilobiti (in buona compagnia) scompaiono del tutto. I Trilobiti presentano una peculiarità importante, si diversificano in molte forme, ben riconoscibili e per intervalli cronologici ben definiti, questo fa sì che essi siano importanti fossili guida del Paleozoico, avendo ampia diffusione geografica, e netta presenza temporale (caratteri da fossile guida), il loro ritrovamento è utilissimo strumento per datare e correlare temporalmente le successioni rocciose del Paleozoico, operazione fondamentale nella ricostruzione della storia della Terra. Inoltre ci hanno lasciato un sacco di documentazioni sulla loro etologia: tracce di camminamento, resti di esemplari appallottolati (posizione difensiva a mo’ di millepiedi),  exuvie fossili (i resti delle mute del carapace), indicanti che avevano mute periodiche come i crostacei d’oggi, elementi che permettono anche ricostruzioni paleoambientali significative. La diffusione dei trilobiti e la loro rapida evoluzione, fa sì che essi siano al centro anche di importanti studi per la comprensione dei meccanismi dell’evoluzione, tutt’altro che svelati. Negli anni ’70 in alternativa alle teorie classiche di derivazione darwiniana (Evoluzione = lento e continuo processo di mutantento) i paleontologi evoluzionisti Eldredge e Gould (autori di importanti e godibilissimi saggi sul tema) proposero la teoria degli equilibri punteggiati, ossia sostennero questo assunto, che le nuove specie si evolvono dalle ancestrali in modo repentino, geologicamente istantaneo, presentandosi di fatto già con le proprie piene caratteristiche, che rimangono sostanzialmente inalterate  (periodo di stasi o equilibrio) fino all’estinzione o a nuove speciazioni, comparendo in aree marginali dell’areale della specie ancestrale e andando poi a occupare lo spazio di quest’ultima. In tal modo i due studiosi spiegavano l’assenza in varie linee evolutive dei cosiddetti “anelli mancanti” (tranquilli no gà robà gnente nessun), il fatto che spesso talune migliorie evolutive o compaiono già sviluppate del tutto o non servono a un picchio (pensate alle ali), diversamente da quanto detto dall’evoluzionismo classico, e il fatto che talora vi sia compresenza nel record fossile dei resti della specie ancestrale e della derivata (nella teoria filetica, la classica, teoricamente ciò non dovrebbe accadere). E i trilobiti? Beh un genere Phacops Rana (nella foto di gruppo sotto, fonte internet), diffuso in nord america nel Devoniano medio e superiore (380-360 mln anni fa) fu usato come esempio per suffragare tale teoria,  poiché appunto presentava ritrovamenti di compresenza tra specie derivate e ancestrali.